a cura di Grazia Paoletti e Piercarlo Albertosi
Nel sistema capitalistico vediamo affermata da decenni la prevalenza delle teorie macroeconomiche monetariste e delle relative politiche monetarie, il cui primo obbiettivo è eliminare l’instabilità dei sistemi economici moderni per mantenere la stabilità dei prezzi e quindi del valore della moneta. . Sul versante della politica economica l’unico intervento per così dire legittimato sul mercato reale appare la cosiddetta politica dalla parte dell’offerta, cioè favorire la stabilità dei prezzi e lo stimolo alla crescita attraverso incentivi alle imprese. Questo tipo d’intervento gode di grande popolarità fin dagli anni di Reagan negli Stati Uniti e della Thatcher in Gran Bretagna. Si tratta di incentivi all’ offerta e di forti riduzioni delle aliquote d’imposte e della progressività delle stesse. Tutto questo al fine di aumentare la remunerazione netta dei fattori come il risparmio, gli investimenti, il lavoro, che promuovono la crescita,. Mentre la teoria keynesiana afferma il ruolo essenziale della domanda aggregata, cioè della spesa in consumi ed investimenti, per accrescere il prodotto nazionale e l’occupazione. All’inizio dell’amministrazione Reagan c’era una forte aspettativa di ripresa economica e di crescita del prodotto reale, il PNL, ma in realtà le politiche dal lato dell’offerta determinarono un tasso di crescita effettivo circa della metà rispetto a quello previsto. Al contrario delle previsioni, il gettito fiscale diminuì generando l’aumento del disavanzo del bilancio federale, l’inflazione diminuì ma fu pagato un prezzo altissimo in termini di disoccupazione, diminuì bruscamente il tasso di risparmio nazionale e nel periodo 81-83 si manifestò una profonda recessione, come descrive il premio Nobel Paul Samuelson.
Ebbene, oggi nel 2008 è molto importante che un illustre economista riaffermi i principi della politica economica keynesiana basata sul ruolo fondamentale della domanda. Mi riferisco all’intervista del Prof. Giorgio Lunghini ordinario di Economia politica all’Università di Pavia su L’Unità del 12 luglio.
L’economia dell’Italia è in costante declino, il paese è stretto in notevoli difficoltà internazionali, la BCE è accanitamente monetarista. In questo quadro Lunghini propone l’aumento di salari e stipendi per rilanciare i consumi dei ceti sociali a basso reddito che hanno una elevata propensione al consumo. Egli sostiene con forza la necessità diuna redistribuzione del reddito attraverso l’aumento del prelievo sui redditi alti e rilancia il concetto di progressività dell’imposta conformemente al dettato costituzionale. Insomma, è una voce oggi assolutamente fuori dal coro, che ci indica l’unica ragionevole strada da intraprendere, non solo per una questione di giustizia sociale, ma per far crescere l’economia: “basta frequentare un corso base di economia per saperlo”, egli sostiene.
Ancora. Su Il Manifesto del 3 luglio commentando il Rapporto sullo stato sociale 2008 elaborato dal Dipartimento di economia pubblica della Sapienza di Roma e dal CRISS e curato dal Prof. Felice Roberto Pizzuti, docente di economia pubblica alla Sapienza, quest’ultimo mette in rilievo che negli ultimi anni pur senza trovare adeguate verifiche empiriche si è diffusa la tesi secondo la quale la spesa e l’azione dello stato sociale frenerebbero la crescita economica e dunque per favorire lo sviluppo dovrebbero essere contenute. Questo può essere usato per giustificare interventi restrittivi sul welfare con lo spostamento dei rischi dalle imprese e dalla collettività ai singoli lavoratori, come difatti sta avvenendo. Invece appare chiaro che in tal caso la domanda si riduce e frena la crescita. Al contrario “i paesi europei più avanzati si distinguono per un circolo virtuoso in cui il welfare state (e dunque la spesa pubblica) favorisce innovazione produttiva, competitività e crescita, facilitando la stessa capacità di finanziamento della spesa sociale”.
Il governatore Draghi a Montecitorio parlando del DPEF ha spiegato che il contesto internazionale è difficile ed ha sottolineato la necessità di ridurre le aliquote d’imposte “per i lavoratori e per le imprese” per rafforzare la crescita, e di restituire il drenaggio fiscale per sostenere il reddito disponibile delle famiglie. Tuttavia i due gruppi sociali destinatari di tali interventi non possono essere messi sullo stesso piano a livello di effetti espansivi sulla crescita proprio in base alla diversa propensione marginale al consumo di soggetti con diversi livelli di reddito (anche senza parlare di equità sociale!).
Un importante accenno troviamo in Lunghini anche a proposito della produttività, che non cresce abbassando i salari, ma dipende dalle scelte imprenditoriali. Investimenti, innovazione, formazione, sicurezza sul lavoro, benessere nelle condizioni di lavoro. Invece le condizioni di lavoro e la sicurezza peggiorano notevolmente, l’intensità del lavoro in Italia è aumentata di 28 punti percentuali, e si detassano pure gli straordinari! Dalla seconda metà degli anni novanta i problemi mentali legati al lavoro, come stress,insonnia e crisi d’ansia sono aumentati del 3,2%. Non mi pare che siano forieri di crescita della produttività.
Del resto basta leggere anche solo i quotidiani per rilevare la drammaticità della questione salariale in Italia. Gli italiani guadagnano meno della media dei 30 paesi dell’OCSE e meno degli europei. Evidentemente se il costo del lavoro fosse davvero inversamente proporzionale alla produttività dovremmo, relativamente a quest’ultima, essere in cima alla classifica!
Il lavoratore medio guadagna circa la metà di un collega scandinavo, paga uguali tasse e non ottiene in cambio uguali servizi e sussidi.
L'aumento del petrolio insieme a quello collegato dei carburanti e di conseguenza delle tariffe essenziali (luce e gas), oltre ai generi alimentari cresciuti praticamente tutti (ma soprattutto quelli più importanti dal punto di vista sociale, i prodotti alimentari di base legati al grano) hanno generato una crescita non trascurabile dell'inflazione.
Questo dato deve essere collegato a quelli sulla povertà nel nostro paese forniti recentmente dalla Caritas, che mostrano come la situazione si sia ulteriormente aggravata, addirittura anche rispetto al rapporto Istat pubblicato all'inizio dell'estate 2007. Se poi aggiungiamo i bassi livelli dei salari sopra citati, che hanno determinato anche in Italia il fenomeno dei "lavoratori poveri", tutto ciò induce a riflettere sull'opportunità, anzi la necessità ed urgenza di riparlare di un adeguamento delle retribuzioni e delle pensioni al costo della vita.
A tale proposito si sono già cominciati a leggere su quotidiani e riviste vari articoli allarmati di economisti o industriali che paventano la reintroduzione della scala mobile.
La salvaguardia del valore reale delle retribuzioni dei lavoratori e delle lavoratrici dipendenti a fronte della crescita dell'inflazione e delle tariffe essenziali rappresenta, prima di tutto, l'attuazione del dettato costituzionale ex art.36: "Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa."
Ebbene è necessario formulare una proposta sull’adeguamento delle retribuzioni al costo della vita.
Il ridimensionamento progressivo del reddito reale dei lavoratori dipendenti contribuisce, oltre tutto, a contrarre i consumi ed il relativo mercato interno, senza che a ciò corrisponda alcun beneficio in termini occupazionali, come invece hanno sempre sostenuto i fautori della liquidazione della scala mobile.
Il meccanismo di indicizzazione dovrebbe prevedere che, qualora l'inflazione reale si riveli superiore a quella programmata, la differenza corrispondente alla diminuzione del valore reale delle retribuzioni venga inserita nella busta paga dei dipendenti entro il primo mese dell'anno successivo a quello di riferimento. Nulla sarebbe dovuto se l'inflazione reale coincidesse con quella programmata. Il meccanismo interviene solo se si verifica uno scostamento fra la realtà e le previsioni. E potrebbe anche fungere da deterrente nei confronti di tendenze all'ulteriore innalzamento dei prezzi. Inoltre questo strumento di indicizzazione automatica non viola la contrattazione fra le parti sociali né vi si sostituisce, ma lascia inalterati i contenuti degli accordi sindacali vigenti. Ci permettiamo dunque di ricordare con forza alla Sinistra questo problema.
16 luglio 2008
Nel sistema capitalistico vediamo affermata da decenni la prevalenza delle teorie macroeconomiche monetariste e delle relative politiche monetarie, il cui primo obbiettivo è eliminare l’instabilità dei sistemi economici moderni per mantenere la stabilità dei prezzi e quindi del valore della moneta. . Sul versante della politica economica l’unico intervento per così dire legittimato sul mercato reale appare la cosiddetta politica dalla parte dell’offerta, cioè favorire la stabilità dei prezzi e lo stimolo alla crescita attraverso incentivi alle imprese. Questo tipo d’intervento gode di grande popolarità fin dagli anni di Reagan negli Stati Uniti e della Thatcher in Gran Bretagna. Si tratta di incentivi all’ offerta e di forti riduzioni delle aliquote d’imposte e della progressività delle stesse. Tutto questo al fine di aumentare la remunerazione netta dei fattori come il risparmio, gli investimenti, il lavoro, che promuovono la crescita,. Mentre la teoria keynesiana afferma il ruolo essenziale della domanda aggregata, cioè della spesa in consumi ed investimenti, per accrescere il prodotto nazionale e l’occupazione. All’inizio dell’amministrazione Reagan c’era una forte aspettativa di ripresa economica e di crescita del prodotto reale, il PNL, ma in realtà le politiche dal lato dell’offerta determinarono un tasso di crescita effettivo circa della metà rispetto a quello previsto. Al contrario delle previsioni, il gettito fiscale diminuì generando l’aumento del disavanzo del bilancio federale, l’inflazione diminuì ma fu pagato un prezzo altissimo in termini di disoccupazione, diminuì bruscamente il tasso di risparmio nazionale e nel periodo 81-83 si manifestò una profonda recessione, come descrive il premio Nobel Paul Samuelson.
Ebbene, oggi nel 2008 è molto importante che un illustre economista riaffermi i principi della politica economica keynesiana basata sul ruolo fondamentale della domanda. Mi riferisco all’intervista del Prof. Giorgio Lunghini ordinario di Economia politica all’Università di Pavia su L’Unità del 12 luglio.
L’economia dell’Italia è in costante declino, il paese è stretto in notevoli difficoltà internazionali, la BCE è accanitamente monetarista. In questo quadro Lunghini propone l’aumento di salari e stipendi per rilanciare i consumi dei ceti sociali a basso reddito che hanno una elevata propensione al consumo. Egli sostiene con forza la necessità diuna redistribuzione del reddito attraverso l’aumento del prelievo sui redditi alti e rilancia il concetto di progressività dell’imposta conformemente al dettato costituzionale. Insomma, è una voce oggi assolutamente fuori dal coro, che ci indica l’unica ragionevole strada da intraprendere, non solo per una questione di giustizia sociale, ma per far crescere l’economia: “basta frequentare un corso base di economia per saperlo”, egli sostiene.
Ancora. Su Il Manifesto del 3 luglio commentando il Rapporto sullo stato sociale 2008 elaborato dal Dipartimento di economia pubblica della Sapienza di Roma e dal CRISS e curato dal Prof. Felice Roberto Pizzuti, docente di economia pubblica alla Sapienza, quest’ultimo mette in rilievo che negli ultimi anni pur senza trovare adeguate verifiche empiriche si è diffusa la tesi secondo la quale la spesa e l’azione dello stato sociale frenerebbero la crescita economica e dunque per favorire lo sviluppo dovrebbero essere contenute. Questo può essere usato per giustificare interventi restrittivi sul welfare con lo spostamento dei rischi dalle imprese e dalla collettività ai singoli lavoratori, come difatti sta avvenendo. Invece appare chiaro che in tal caso la domanda si riduce e frena la crescita. Al contrario “i paesi europei più avanzati si distinguono per un circolo virtuoso in cui il welfare state (e dunque la spesa pubblica) favorisce innovazione produttiva, competitività e crescita, facilitando la stessa capacità di finanziamento della spesa sociale”.
Il governatore Draghi a Montecitorio parlando del DPEF ha spiegato che il contesto internazionale è difficile ed ha sottolineato la necessità di ridurre le aliquote d’imposte “per i lavoratori e per le imprese” per rafforzare la crescita, e di restituire il drenaggio fiscale per sostenere il reddito disponibile delle famiglie. Tuttavia i due gruppi sociali destinatari di tali interventi non possono essere messi sullo stesso piano a livello di effetti espansivi sulla crescita proprio in base alla diversa propensione marginale al consumo di soggetti con diversi livelli di reddito (anche senza parlare di equità sociale!).
Un importante accenno troviamo in Lunghini anche a proposito della produttività, che non cresce abbassando i salari, ma dipende dalle scelte imprenditoriali. Investimenti, innovazione, formazione, sicurezza sul lavoro, benessere nelle condizioni di lavoro. Invece le condizioni di lavoro e la sicurezza peggiorano notevolmente, l’intensità del lavoro in Italia è aumentata di 28 punti percentuali, e si detassano pure gli straordinari! Dalla seconda metà degli anni novanta i problemi mentali legati al lavoro, come stress,insonnia e crisi d’ansia sono aumentati del 3,2%. Non mi pare che siano forieri di crescita della produttività.
Del resto basta leggere anche solo i quotidiani per rilevare la drammaticità della questione salariale in Italia. Gli italiani guadagnano meno della media dei 30 paesi dell’OCSE e meno degli europei. Evidentemente se il costo del lavoro fosse davvero inversamente proporzionale alla produttività dovremmo, relativamente a quest’ultima, essere in cima alla classifica!
Il lavoratore medio guadagna circa la metà di un collega scandinavo, paga uguali tasse e non ottiene in cambio uguali servizi e sussidi.
L'aumento del petrolio insieme a quello collegato dei carburanti e di conseguenza delle tariffe essenziali (luce e gas), oltre ai generi alimentari cresciuti praticamente tutti (ma soprattutto quelli più importanti dal punto di vista sociale, i prodotti alimentari di base legati al grano) hanno generato una crescita non trascurabile dell'inflazione.
Questo dato deve essere collegato a quelli sulla povertà nel nostro paese forniti recentmente dalla Caritas, che mostrano come la situazione si sia ulteriormente aggravata, addirittura anche rispetto al rapporto Istat pubblicato all'inizio dell'estate 2007. Se poi aggiungiamo i bassi livelli dei salari sopra citati, che hanno determinato anche in Italia il fenomeno dei "lavoratori poveri", tutto ciò induce a riflettere sull'opportunità, anzi la necessità ed urgenza di riparlare di un adeguamento delle retribuzioni e delle pensioni al costo della vita.
A tale proposito si sono già cominciati a leggere su quotidiani e riviste vari articoli allarmati di economisti o industriali che paventano la reintroduzione della scala mobile.
La salvaguardia del valore reale delle retribuzioni dei lavoratori e delle lavoratrici dipendenti a fronte della crescita dell'inflazione e delle tariffe essenziali rappresenta, prima di tutto, l'attuazione del dettato costituzionale ex art.36: "Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa."
Ebbene è necessario formulare una proposta sull’adeguamento delle retribuzioni al costo della vita.
Il ridimensionamento progressivo del reddito reale dei lavoratori dipendenti contribuisce, oltre tutto, a contrarre i consumi ed il relativo mercato interno, senza che a ciò corrisponda alcun beneficio in termini occupazionali, come invece hanno sempre sostenuto i fautori della liquidazione della scala mobile.
Il meccanismo di indicizzazione dovrebbe prevedere che, qualora l'inflazione reale si riveli superiore a quella programmata, la differenza corrispondente alla diminuzione del valore reale delle retribuzioni venga inserita nella busta paga dei dipendenti entro il primo mese dell'anno successivo a quello di riferimento. Nulla sarebbe dovuto se l'inflazione reale coincidesse con quella programmata. Il meccanismo interviene solo se si verifica uno scostamento fra la realtà e le previsioni. E potrebbe anche fungere da deterrente nei confronti di tendenze all'ulteriore innalzamento dei prezzi. Inoltre questo strumento di indicizzazione automatica non viola la contrattazione fra le parti sociali né vi si sostituisce, ma lascia inalterati i contenuti degli accordi sindacali vigenti. Ci permettiamo dunque di ricordare con forza alla Sinistra questo problema.
16 luglio 2008
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